L'AGE informa |
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RASSEGNA
9 - 12 maggio 2005
Strasburgo
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Sommario Codici delle procedure parlamentari, abbreviazioni Deputati al Parlamento europeo
Dichiarazioni
Mercato interno
Politica sociale e dell’occupazione
Affari economici e monetari
Mercato interno
Relazioni esterne
Sviluppo e Cooperazione
Commercio estero
Agricoltura
Ambiente
Trasporti
Cultura
Informazione e
comunicazione
Dichiarazioni
Varie Ordine del giorno 25 - 26 maggio 2005 Bruxelles
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Codici delle procedure parlamentari
Abbreviazioni - Gruppi politici: vedere pagina seguente
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Deputati al Parlamento europeo Situazione al 12.05.2005 |
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Deputati uscenti: Gruppi politici
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8 maggio 1945 - 2005: «non può esservi riconciliazione senza verità
e ricordo»
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Qualifiche professionali riconosciute in tutta Europa
Stefano
ZAPPALÀ (PPE/DE, IT) In seconda lettura della procedura di codecisione, la Plenaria ha adottato la relazione di Stefano ZAPPALÀ (PPE/DE, IT) sulla proposta di direttiva relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Gli emendamenti adottati dal Parlamento sono frutto di un compromesso con il Consiglio, per cui sarà probabilmente evitato il ricorso alla procedura di conciliazione. Per consentire l'esercizio di una professione in un paese diverso da quello in cui è stata ottenuta una qualifica professionale, è necessario che questa sia riconosciuta dal paese ospitante. La proposta di direttiva, presentata dalla Commissione nel 2002, tratta tutte i tipi di professione: lavoro subordinato e autonomo, la prestazione di servizi temporanei e le professioni cosiddette regolamentate (medici, infermieri, architetti, ecc.). Il principio del riconoscimento automatico dei titoli si applicherà d'ora in poi sulla base di un coordinamento delle condizioni minime di formazione. Nel corso del dibattito tenutosi la vigilia, il relatore ha sottolineato che la direttiva «riveste un'importanza notevole» per tutti i cittadini europei che ogni giorno si trovano «ad avere a che fare con dei professionisti». Nell'illustrare i contenuti della relazione, egli ha anche evidenziato che, nell'ambito delle autonomie nazionali, «ogni governo decide quali sono i livelli di cultura e di formazione minima per l'accesso alle singole professioni e decide anche chi deve autorizzare all'esercizio delle professioni e chi deve controllare lo svolgimento delle professioni». Il relatore, spiegando l'introduzione di una definizione di «libero professionista», ha poi tenuto a ricordare che la direttiva in questione, nel rispetto di alcune peculiarità nazionali e professioni, semplificherà il quadro normativo europeo con l'adozione di un solo testo legislativo che va a sostituire tutta una serie di direttive adottate in passato. Il deputato ha anche rilevato l'inserimento della definizione di «autorità competente» nazionale, auspicando che a breve possa anche leggersi in chiave europea «affinché si finisca la polemica emersa la scorsa legislatura su ordini, collegi e associazioni» e queste strutture trovino collocazione anche nell'ambito del diritto europeo. Il relatore ha poi evidenziato che la direttiva include misure volte a contrastare il «qualification shopping» e altre che prevedono la consultazione delle singole professioni europee per qualunque ulteriore innovazione che le riguarda. Le professioni e l'equivalenza dei titoli I deputati, facendo un diretto riferimento ai trattati, precisano che le professioni legate all'esercizio di pubblici poteri sono escluse dal campo d'applicazione della direttiva. Trattandosi di professioni regolamentate, il Parlamento ritiene che la direttiva riguarda anche le «professioni liberali», definite come quelle praticate «sulla base di qualifiche professionali in modo personale, responsabile e professionalmente indipendente» da parte di coloro che «forniscono servizi intellettuali e di concetto negli interessi dei clienti e del pubblico». L'esercizio della professione negli Stati membri, viene precisato, «può essere oggetto ... di specifici limiti legali sulla base della legislazione nazionale e sulle disposizioni a norma di legge stabilite autonomamente .... dai rispettivi organismi rappresentativi professionali». Tali normative, è aggiunto, devono salvaguardare e sviluppare «la loro professionalità e la qualità del servizio» nonché «la confidenzialità delle relazioni con i clienti». Per un cittadino dell'Unione, l'accesso a una professione regolamentata sarà subordinato alle stesse condizioni dei cittadini del paese ospitante. Tale regola riguarda, in particolare, gli attestati di competenze o i titoli di formazione richiesti. Questi dovranno però rispettare una serie di condizioni, atte a dimostrare un livello di qualifica professionale almeno equivalente a quello immediatamente inferiore a quello richiesto dallo Stato ospitante. Il testo licenziato dal Parlamento stabilisce dei livelli di riferimento, corrispondenti al grado di formazione e di qualifiche riconosciute, che permettono di effettuare delle equivalenze sui livelli di competenze tra i diversi Stati membri. I deputati chiedono di raggruppare le qualifiche in cinque livelli (al posto di quattro come proposto dal Consiglio) ma senza attribuire loro un numero, una lettera o altri segni che presumono una gerarchia. Il Parlamento, inoltre, ridefinisce alcuni livelli al fine di rispondere meglio alla realtà dei cicli formativi nei diversi Stati membri. I deputati, peraltro, per rispetto dell'acquis comunitario e in contrasto con il Consiglio, mantengono il principio del riconoscimento automatico delle specializzazioni mediche o dentistiche comuni ad almeno due Stati membri. Gli allegati della direttiva contengono anche le denominazioni delle professioni in tutte le lingue ufficiali dell'UE per agevolare la corrispondenza delle diverse categorie. Ad esempio, in repubblica ceca lo «Zdravotnický asistent» è l'assistente sanitario. Un comitato unico di riconoscimento e le organizzazioni professionali Con una serie di emendamenti, i deputati trattano dell'importanza e della modalità di partecipazione delle associazioni e degli organismi professionali alla procedura di riconoscimento delle qualifiche. Per rendere efficace la gestione dei diversi regimi di riconoscimento stabiliti dalle direttive settoriali e dal regime generale, sarà instaurato un Comitato per il riconoscimento delle qualifiche professionali composto dai rappresentanti degli Stati membri e presieduto da un rappresentante della Commissione. I deputati, inoltre, propongono che tale comitato consulti gli esperti delle categorie professionali interessate. Inoltre, un emendamento impone alla Commissione di valutare l'opportunità di adottare una proposta di emendamento alla direttiva nel caso in cui organizzazioni o associazioni professionali nazionali o a livello europeo di una professione regolamentata avanzino una richiesta motivata concernente disposizioni specifiche per il riconoscimento delle qualifiche. Le tessere professionali Per agevolare la libera circolazione e la mobilità dei professionisti, i deputati propongono l'introduzione di tessere professionali individuali che potrebbero contenere informazioni sulle qualifiche della persona - come la sua formazione, la sua esperienza o le sanzioni da cui è stato colpito - per accelerare lo scambio di informazioni tra il paese d'origine e quello ospitante. Queste tessere sarebbero rilasciate dalle associazioni o organizzazioni professionali. Autorità competente e ordini professionali La relazione adottata introduce anche la definizione di «autorità competente»: «qualsiasi autorità o organismo investito di autorità dagli Stati membri, abilitato in particolare a rilasciare o a ricevere titoli di formazione e altri documenti o informazioni, nonché ricevere le domande e ad adottare le decisioni di cui alla presente direttiva». Inserendo una definizione generale di "organismo competente" e facendo sempre riferimento a tale definizione, la direttiva si allinea alla situazione effettivamente vigente nella maggior parte degli Stati membri, ove i poteri pubblici delegano parte della gestione delle professioni ad organismi autonomi, come gli ordini professionali. In altri termini, la gestione delle professioni dipende dall'organizzazione interna di ogni Stato membro e pertanto non esclude la designazione di organismi che non sono amministrazioni. Mutuo riconoscimento Sin dall'inizio, la sfida più difficile consisteva nella ricerca di un equilibrio tra agevolare la prestazione di servizi in tutta l'Unione e controllare l'accesso all'esercizio delle professioni da parte del paese ospitante. Contrariamente alla proposta iniziale della Commissione, che era favorevole ad ampie agevolazioni e al principio del controllo da parte del paese d'origine, il testo adottato dal Parlamento prevede il mutuo riconoscimento e il principio del controllo da parte del paese ospitante. Gli Stati membri hanno quindi la possibilità di verificare le qualifiche e sottoporre il diritto di esercitare una professione a delle esigenze specifiche, in particolare per garantire l'interesse generale. Sono state anche inserite delle salvaguardie volte a combattere gli abusi. Si tratta, ad esempio, di evitare che il riconoscimento professionale ottenuto in un altro Stato membro serva ad aggirare le norme più esigenti in vigore nel paese d'origine o conferisca dei diritti supplementari. |
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Tempo di lavoro: 48 ore a settimana, al massimo
Alejandro
CERCAS (PSE, ES) Votazione Tre anni dopo l'entrata in vigore della nuova direttiva sull'organizzazione dell'orario di lavoro, i deputati desiderano che gli Stati membri dell'Unione sopprimano il diritto riconosciuto individualmente ad ogni lavoratore di rinunciare alla limitazione della durata massima settimanale di lavoro di 48 ore. Auspicano inoltre che i periodi di servizio di guardia, nella maggior parte dei casi, siano contabilizzati come periodo di lavoro. Sono questi i principali aspetti della proposta di direttiva sull'organizzazione dell'orario di lavoro evidenziati dalla relazione di Alejandro CERCAS (PSE, ES), adottata dalla Plenaria in prima lettura della procedura di codecisione con 355 voti favorevoli, 272 contrari e 31 astensioni. I deputati, si smarcano così dalla posizione dell'Esecutivo che, pur rendendo più severe le condizioni per potervi ricorrere, propone il mantenimento della clausola di rinuncia (opt out). Prendendo nuovamente in contropiede la Commissione, i deputati chiedono che l'intero periodo di servizio di guardia, «incluso il periodo inattivo», sia considerato come orario di lavoro. A tale riguardo, tuttavia, è concesso agli Stati membri di calcolare «in modo specifico» i periodi inattivi del servizio di guardia, per rispettare la durata massima settimanale di lavoro. La relazione, peraltro, chiarisce le nozioni di servizio di guardia e di periodo inattivo del servizio di guardia. I deputati, in linea generale, sono favorevoli alla proposta della Commissione di dare la facoltà di estendere il periodo di riferimento utilizzato per calcolare la durata media di lavoro settimanale da 4 a 12 mesi. Questa estensione, come sostiene il relatore, consente di rispondere alle esigenze di flessibilità in modo ragionevole. Tuttavia, la sua applicazione andrà attentamente controllata con misure appropriate volte a garantire la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori. La facoltà di ricorrere a questa deroga è concessa, per «ragioni obiettive, tecniche o di organizzazione del lavoro», nei casi in cui i lavoratori sono coperti da accordi collettivi. Se così non fosse, gli Stati membri possono ricorrere a misure legislative purché sia garantita la consultazione di lavoratori e il datore di lavoro adotti i necessari provvedimenti volti a prevenire qualsiasi rischio per la salute o la sicurezza dei suoi dipendenti. Con un altro emendamento, i deputati reclamano che l'orario di lavoro sia organizzato in modo tale da permettere ai lavoratori che lo auspicano di seguire una formazione lungo tutto l'arco della vita. Inoltre, difendono l'obiettivo teso a garantire un migliore equilibrio, da una parte, tra l'esigenza di conciliare la vita professionale e quella familiare e, dall'altra, la necessità di organizzare con maggiore flessibilità l'orario di lavoro. La relazione chiarisce poi la situazione dei lavoratori legati a più di un contratto, prevedendo che l'orario di lavoro di una persona debba essere calcolato come la somma dei periodi lavorativi prestati a titolo di ogni contratto. La proposta di respingere la direttiva avanzata dal gruppo GUE/NGL non è stata accolta dall'Aula con 520 voti contrari, 93 favorevoli e 21 astensioni. Background La direttiva sull'orario di lavoro (2003/88/CE) offre un minimo di protezione ai lavoratori, ad eccezione dei dirigenti d'impresa. Tale provvedimento prevede che un lavoratore ha diritto a un periodo quotidiano di riposo di 11 ore, a delle pause regolari, ad almeno quattro settimane di ferie pagate l'anno, a una limitazione della durata massima di lavoro settimanale di 48 ore nonché alla limitazione di 8 ore/24 in caso di lavori notturni. Nel 1993, il Regno Unito aveva ottenuto l'introduzione di una clausola di opt out che permette agli Stati membri di non rispettare, a certe condizioni, la limitazione legale di 48 ore lavorative settimanali. I dipendenti, così, dovevano decidere in anticipo se desideravano beneficiarne o meno. I primi non dovevano essere penalizzati, i secondi dovevano essere registrati. Nonostante avesse portata generale, tale clausola è stata utilizzata soprattutto nel Regno Unito. Tuttavia, sono emerse delle preoccupazioni riguardo ai rischi potenziali legati all'abuso nel ricorso a tale clausola. In molti, infatti, credono che un lavoratore in procinto di firmare un contratto non sia in grado di godere appieno della libertà di scelta. L'assenza di una definizione del periodo di servizio di guardia pone problemi ancora maggiori. Questo punto, d'altra parte è stato oggetto di diverse sentenze della Corte di Giustizia con le quali i giudici hanno considerato che il periodo di guardia doveva essere incluso nell'orario di lavoro. La maggior parte degli Stati membri ha quindi dovuto adattare la propria legislazione per conformarsi a questa giurisprudenza che riguarda, in particolar modo, il settore della sanità. Link utili
Proposta della Commissione Dibattito Il relatore Alejandro CERCAS (PSE, ES) ha sottolineato la responsabilità che incombe sull'Unione europea di rispondere alle aspettative dei cittadini in materia sociale. La direttiva sull'orario di lavoro, ha aggiunto, è iscritta nell'Agenda sociale e deve far parte del modello sociale europeo. «Non è l'Europa che deve adattarsi al modello sociale asiatico, ma l'Asia che deve conformarsi al modello europeo», ha affermato in relatore. Nell'ambito dei dibattiti sulla Costituzione, ha proseguito il deputato, i cittadini si chiedono cosa fa l'Europa per migliorare il livello di vita degli europei e la direttiva in questione rientra appieno in questa discussione. E' quindi importante che le leggi europee si applichino in modo uniforme in tutti gli Stati membri e non basta combattere solo gli abusi sulla possibilità di rinunciare alla limitazione dell'orario di lavoro settimanale (clausola dell'opt out). Pertanto tale possibilità va eliminata. Questa clausola, per il relatore, contrasta poi con la direttiva sulla tutela dei lavoratori, con il Trattato e con la Carta dei Diritti fondamentali. L'opt out, infine, rende difficile conciliare la vita familiare e lavorativa. Inoltre, è necessario che il tempo passato in servizio di guardia sia considerato come periodo di lavoro. La relazione accetta un certo grado di flessibilità ma, ha ammonito il deputato, se non si rinuncia all'opt out la proposta verrebbe respinta in toto. La flessibilità, ha poi spiegato, non contraddice la protezione sociale dei lavoratori, l'opt out invece sì. Il relatore ha quindi invitato Consiglio e Commissione a dare seguito alla speranza espressa dai deputati ed ha concluso auspicando un dialogo costruttivo tra le istituzioni su tale materia. Luigi COCILOVO (ALDE/ADLE, IT) si è innanzitutto congratulato per il lavoro fatto dal relatore e per le conclusioni a cui si è pervenuti nel voto in commissione parlamentare. Il deputato ha quindi sottolineato che il riferimento che giustifica la proposta di direttiva è quello della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e, in questo, non ravvede «una minaccia nei confronti del principio di sussidiarietà della tutela delle diverse esperienze nazionali». Per l'oratore, infatti, occorre tenere conto che i principi della tutela della salute e della sicurezza oltre certi limiti di prestazione oraria di lavoro «sono principi e valori di tutela generale rispetto ai quali è necessario avere una base di regole comuni per la definizione stessa del modello sociale, lavorativo, economico e dei principi cui si deve ispirare l'Unione europea». Vanno fatte salve tutte le possibilità di regolazione flessibile e specifica di questa materia, ha aggiunto il deputato, ed è proprio per questo che preferirebbe ricorrere al principio di un rinvio alle soluzioni adottate attraverso la contrattazione collettiva nei vari paesi. A condizione, però, che questa esista e sia efficace e «garantisca quindi una base di regolazione che possa conciliare le esigenze di flessibilità e di organizzazione specifica e settoriale dell'orario di lavoro con quelle della salute e della sicurezza» che, in ogni caso, devono essere tutelate «incondizionatamente». Affermando che le soluzioni adottate in commissione vanno in questa direzione e garantiscono la flessibilità con il periodo di base di calcolo di riferimento venga esteso fino ai 12 mesi, ha auspicato che «sulla base di questo lavoro» le posizioni che potranno evolvere in rapporto alla posizione comune del Consiglio «ci garantiscano anche soluzioni più adeguate nel futuro». Pier Antonio PANZERI (PSE, IT), dopo essersi complimentato per il buon lavoro svolto dal relatore, ha affermato che l'importante compito da svolgere è di «costruire seriamente accanto all'Europa economica l'Europa sociale». Non si possono immaginare una crescita e uno sviluppo economico dell'Europa senza l'apporto decisivo dei lavoratori, la difesa della qualità del lavoro e la loro tutela nonché la salute nei luoghi di lavoro, ha aggiunto. E la direttiva sull'orario di lavoro «è un elemento essenziale dell'Europa sociale». Questi obiettivi di crescita e sviluppo, non potranno essere raggiunti «se sceglieremo la cosiddetta via bassa alla competitività» basata sull'abbattimento dei costi e sull'intensificazione del lavoro. Ciò che serve, ha spiegato, «è la via alta basata sulla qualità e sull'innovazione». In tale contesto, «il capitale umano è decisivo e un suo apporto qualitativo deve essere il nostro obiettivo». Per il deputato, la relazione in esame rappresenta «una valida risposta a questo obiettivo». Essa infatti cerca di preservare i principi di fondo della direttiva sull'orario di lavoro così come sono iscritti nella Costituzione europea, sia sulla questione del periodo di riferimento, sia per l'opt out, sia per quanto concerne la sentenza della Corte di giustizia in materia di tempo di guardia. Notando come nella relazione si riscontra un forte sostegno a favore dell'introduzione di disposizioni volte a aiutare i lavoratori e a conciliare la vita professionale e la vita privata, il deputato ha quindi affermato di appoggiarla appieno. Vladimír ŠPIDLA, a nome della Commissione, ha notato che malgrado il disaccordo tra le due Istituzioni, queste condividono quantomeno gli obiettivi della proposta. In particolare, il commissario non può accettare la posizione espressa dalla relazione sull'opt out, che definisce «un problema critico», ma si è detto disponibile a discuterne. Egli ha quindi notato che le posizioni non sono poi così lontane sul periodo di riferimento da utilizzare per calcolare l'orario medio massimo di lavoro ed ha espresso forti dubbi in merito alla posizione del Parlamento sul computo dei periodi di guardia che, a suo parere, rischierebbe di provocare maggiore incertezza giuridica. Viceversa, ha definito «valide» le proposte sui periodi di riposo quotidiano e settimanale. Concretamente, il commissario ha affermato: di accettare gli emendamenti 2, 3, 12, 13 e 17; di accogliere parzialmente o con riserve gli emendamenti 1, 4, 8, 11, 16, 18, 19, 24 e 29; di respingere gli emendamenti 5, 6, 7, 9, 10, 14, 15, da 20 a 23, da 25 a 28 e da 30 a 52. Per concludere, ha ringraziato il Parlamento per la discussione tenutasi in Aula ed ha auspicato che il dialogo porti a un compromesso che consenta alla direttiva di diventare «il simbolo dell'Europa sociale», tenendo maggiormente in conto la tutela dei lavoratori, senza compromettere la flessibilità «di cui abbiamo bisogno». |
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Nomina di Lorenzo Bini Smaghi al board della BCE
Pervenche
BERÈS (PSE, FR) Adottando a scrutinio segreto la relazione di Pervenche BERÈS (PSE, FR), la Plenaria ha confermato la nomina di Lorenzo Bini Smaghi quale membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea a partire dal 1° giugno 2005, con 410 voti favorevoli, 88 contrari e 40 astensioni. A seguito dell'audizione tenutasi il 19 aprile 2005, la commissione per problemi economici e monetari aveva emesso un parere favorevole a larga maggioranza (solo due voti contrari e 1 astensione, contro i 16 a favore). La presidente della commissione parlamentare, presentando la sua relazione all'Aula ha innanzitutto voluto congratularsi con il predecessore Tommaso Padoa Schioppa «per il modo in cui ha esercitato le sue funzioni» che, nelle relazioni con il Parlamento e nel rappresentare il comitato esecutivo all'esterno, «ha dimostrato grande talento». Riguardo a Lorenzo Bini Smaghi, la relatrice ha affermato che, in occasione dell'audizione, si è potuto verificare che «la sua esperienza e le sue capacità professionali sono fuori di dubbio». Egli, ha proseguito, possiede tutte le capacità per essere un «buon banchiere centrale», alle quali si sommano due elementi che rappresentano un «valore aggiunto»: «un certo senso della comunicazione, che è sicuramente utile per un banchiere centrale e anche una visione arricchita da una certa pluridisciplinarietà». La deputata ha quindi concluso che, nelle discussioni in seno al comitato esecutivo, Bini Smaghi potrà apportare questo approccio «che permetterebbe alla politica monetaria d'essere maggiormente all'ascolto delle necessità dell'economia reale e delle attese dei cittadini». Il resoconto dell'audizione del 19 aprile è disponibile sul sito del Servizio Stampa. |
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Fusioni transfrontaliere più facili per le banche
Klaus-Heiner
LEHNE (PPE/DE, DE) Con l'adozione della relazione di Klaus-Heiner LEHNE (PPE/DE, DE), il Parlamento europeo ha approvato la proposta di direttiva sulle fusioni transfrontaliere delle società di capitali, ma propone una serie di emendamenti volti a chiarire il campo d'applicazione della direttiva, precisare i limiti delle eventuali restrizioni previste dalle legislazioni nazionali e, soprattutto, garantire una più elevata protezione dei lavoratori delle società in procinto di fondersi. Considerato che la relazione adottata corrisponde quasi integralmente alla posizione del Consiglio, non è escluso che l'iter legislativo possa concludersi già in prima lettura della procedura di codecisione. Lo scopo della direttiva proposta dalla Commissione europea è di agevolare le operazioni di concentrazione transfrontaliere di tutte le imprese di capitali, eliminando gli ostacoli posti dalle diverse normative nazionali. Un emendamento adottato dalla Plenaria tende a chiarire che la direttiva si applica alle fusioni transfrontaliere di società di capitali costituite in conformità della legislazione di uno Stato membro e «aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o la principale sede di attività nella Comunità», a condizione che «almeno due di esse siano soggette alla legislazione di Stati membri diversi». Le principali beneficiarie di questa nuova normativa sarebbero, in particolare, le imprese di medie dimensioni che intendono operare in più di uno Stato membro, ma non in tutta l’Europa, e quindi meno suscettibili di volersi costituire come società di diritto europeo attraverso l’adozione dello statuto di società europea. D'altra parte i deputati danno la facoltà agli Stati membri di non applicare la direttiva alle fusioni transfrontaliere che coinvolgono una società cooperativa, «anche nei casi in cui quest'ultima rientrerebbe nella definizione di società di capitali». E' poi precisato che la direttiva non si applica alle fusioni a cui partecipa una società avente per oggetto l'investimento collettivo di capitali raccolti presso il pubblico. La direttiva proposta prevede una procedura per le fusioni transfrontaliere, in base alla quale all’interno dei singoli Stati membri queste operazioni sarebbero disciplinate dai principi e dalle disposizioni vigenti a livello nazionale per le concentrazioni di imprese. I deputati concordano con questo approccio, specificando che la legislazione nazionale non dovrebbe introdurre restrizioni alla libertà di stabilimento o di circolazioni di capitali, «a meno che tali restrizioni non siano giustificate in base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia», ossia «da esigenze di interesse generale» imperative e, comunque, che siano «ad esse proporzionate». Seppur la proposta della commissione introduca dei dispositivi di salvaguardia per evitare che le imprese si servano delle fusioni transfrontaliere per sottrarsi agli obblighi relativi ai regimi di partecipazione dei lavoratori vigenti a livello nazionale, i deputati si sono rivelati molti attenti nel prevedere una maggiore protezione dei diritti dei lavoratori in materia di informazione, consultazione e partecipazione. In particolare, hanno voluto garantire che se la società venutasi a creare a seguito della fusione non riconosce ai lavoratori gli stessi diritti di una delle due società precedenti, la partecipazione dei dipendenti sarà oggetto di negoziati conformemente alle disposizioni previste dallo statuto della società europea. Tuttavia, qualora una delle società avesse un numero medio di lavoratori inferiore a 500, continuerebbe ad applicarsi la legislazione nazionale della società derivante dalla fusione. I deputati, inoltre, introducono l'obbligo per gli organi di direzione delle società che partecipano alla fusione di preparare un progetto comune dell'operazione transfrontaliera che comprenda anche «le probabili ripercussioni della fusione sull'occupazione». Inoltre, chiedono che gli stessi organismi societari redigano una relazione destinata ai soci, nella quale siano illustrati e giustificati «gli aspetti giuridici ed economici della fusione transfrontaliera» e spiegate «le conseguenze della fusione per gli azionisti, i creditori e i lavoratori». La relazione in questione deve poi essere resa disponibile agli azionisti, ai lavoratori e ai loro rappresentanti, entro un mese dall'assemblea generale. Inoltre, alla relazione dovrà essere allegato il parere espresso dai rappresentanti dei lavoratori, secondo quanto previsto dalla legge nazionale, qualora gli organi societari lo ricevano in tempo utile. Infine, i deputati chiedono che, cinque anni dopo l'entrata in vigore della direttiva, la Commissione esamini la sua attuazione e, se necessario, ne proponga la revisione. Gli Stati membri dovranno trasporre la direttiva nel diritto nazionale entro due anni dalla data di entrata in vigore. |
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Afghanistan: paese stabile e democratico che ha bisogno dell'aiuto
internazionale
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Aiutare il Sudan se cessano le violenze
Risoluzione
comune sul Sudan Sulla base di un'interrogazione orale di Lapo PISTELLI (ALDE/ADLE, IT), il Parlamento ha adottato una risoluzione comune sul Sudan in cui i deputati salutano con favore la fine della guerra civile e, condannando il perpetrarsi delle violenze nella regione del Darfur, esortano l'effettivo versamento dell'aiuto comunitario al Paese, ma «solo se si realizzano progressi sostanziali verso la pace» in tale regione. Nel ritenere «un passo importante» verso la pace la firma dell'accordo siglato a Nairobi all'inizio dell'anno, i deputati chiedono con insistenza a tutte le parti di applicarlo senza indugi e a includere tutti gli attori della società politica e civile nella redazione delle nuova Costituzione. A loro parere, inoltre, è essenziale che nel processo decisionale sia garantita la non discriminazione delle donne. Nella ricostruzione del Sudan, poi, occorre rivolgere grande attenzione alla libertà di riunione e di espressione, nonché alla libertà e al pluralismo dei media. Il Parlamento si dice «seriamente preoccupato» per la crescente violenza, la mancanza di sicurezza e l'assenza di una soluzione pacifica nel Darfur, «che potrebbe mettere a rischio l'intero processo di pace». Plaudendo alla decisione dell'ONU di creare un corpo formato da 10.000 persone incaricato del disarmo dei combattenti, dello sminamento e del monitoraggio delle elezioni, i deputati si compiacciono anche per la decisione dell'Unione africana di «aumentare la sua forza di pace nel Darfur portandola a circa 7.700 unità». L'Unione africana, per i deputati, ha svolto finora un ruolo molto positivo «di prevenzione, di verifica del cessate il fuoco e di informazione circa le violazioni dello stesso». Compiacendosi poi della decisione del Consiglio di Sicurezza dell''ONU di presentare la situazione del Darfur innanzi al Tribunale penale Internazionale, l'Aula «sollecita il governo sudanese e tutte le altre parti coinvolte nel conflitto ad adoperarsi al massimo per cooperare pienamente con la Corte». A tale proposito, il Parlamento condanna «la violenza, il terrore e gli stupri» che si registrano continuamente nel Darfur, compresi i rapimenti di lavoratori delle ONG e gli attacchi contro civili nonché le continue intimidazioni ed angherie all'interno dei campi di sfollati. Chiedendo poi a tutte le parti di porre immediatamente fine alla violenza, al conflitto e alle aggressioni sessuali nel Darfur, insiste sul fatto che il ritorno degli sfollati ai loro luoghi di origine «deve essere volontario e deve svolgersi in condizioni di sicurezza e con una protezione». Al governo sudanese è poi chiesto di fare in modo che le donne vittime di stupro possano ricevere un adeguato trattamento dopo la denuncia dei fatti e che «venga compiuto ogni sforzo per migliorare la formazione della polizia per quanto concerne i problemi della violenza sessuale e basata sul genere». Inoltre, i deputati sollecitano tutte le parti implicate nel conflitto del Sudan ad astenersi dal reclutare e dal servirsi di bambini soldato di età inferiore ai 18 anni mentre le autorità sudanesi dovrebbero proteggere i bambini sfollati, in particolare i minori non accompagnati. Il Parlamento si dice favorevole alla ripresa degli aiuti allo sviluppo a tale paese che erano stati bloccati dalla guerra civile, ma sottolinea che il governo sudanese dovrebbe poter accedere ai 450 milioni di euro di fondi comunitari solo «se si realizzano progressi sostanziali verso la pace nel Darfur, compresa la cessazione di tutte le forme di violenza, il controllo da parte delle autorità sudanesi delle milizie che beneficiano di un sostegno governativo e la cooperazione con le indagini del Tribunale penale internazionale». L'Aula ritiene, che tali aiuti debbano essere versati gradualmente e, laddove possibile, attraverso organizzazioni umanitarie. Particolare attenzione andrà rivolta al rilancio dell'attività economica, soprattutto nel settore agricolo, ed i deputati reputano anche necessario assicurare particolare cura e supporto alla salute e all'istruzione dei bambini e delle donne. La Plenaria, infine, «condanna l'arresto del Dr. Adam, presidente dell'organizzazione Sudan Social Development nonché l'arresto del suo collega Yasir Saleem e dell'autista Abdalla Taha», sollecitando, dunque, l'Unione europea ad esercitare «forti pressioni sulle autorità sudanesi affinché rilascino immediatamente» i tre detenuti. Il Parlamento segue da vicino l'evolversi della situazione nel Darfur fin dall'inizio della crisi. Una prima delegazione si è riunita in loco nel febbraio 2004 e una lo scorso settembre, in seguito alle quali sono state adottate due risoluzioni. Dal 23 al 27 marzo 2005, l'onorevole Luisa MORGANTINI (GUE/NGL, IT), presidente della commissione sviluppo, si è recata in Sudan (compresi il Sud ed il Darfur) nel quadro di una missione congiunta ACP-UE. |
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