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Baruffe e intese sulle onde dell'Oceano Atlanticodi Marcello Palumbo
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Morte e liberazione nel cuore dell’Iraq insanguinato dalla guerriglia. Resterà a lungo nel profondo dell’animo degli italiani l’eco del pianto per il sacrificio della vita di uno dei suoi figli migliori, l’agente della sicurezza Nicola Calipari, colpito a morte sulla via dell’aeroporto di Bagdad il 4 marzo, mentre si apprestava a riportare in patria la collega del “manifesto” Giuliana Sgrena, appena liberata dalla banda di rapitori dalla quale era stata tenuta prigioniera per un mese. Calipari è stato abbattuto dal cosiddetto “fuoco amico”: una raffica sparata da una pattuglia americana. Uno dei tanti errori di tiro o di bersaglio, o di motivazione, purtroppo consueti nelle azioni di guerra, che richiamano alla mente il crudele fato della tragedia greca, ma che non esimono dalle ricerca scrupolosa delle responsabilità, opportunamente reclamata dalle massime autorità del nostro Paese, sollecitate dal proprio senso del dovere, ed anche dalla legittima pressione dell’opinione pubblica. E proprio questa esigente sovrana ha richiamato alla memoria alcuni tragici precedenti che hanno increspato, fortunatamente senza allentarli, i rapporti tra gli USA e l’Italia, la nazione che più si è distinta nelle travagliate vicende internazionali in atto per la coerente solidarietà alla storica alleanza occidentale. I ricordi di ferite non rimarginate riguardano Sigonella, il Cermis, ma anche gli interrogativi su Ustica e l’ombra lasciata da una chiusura temporanea dell’ambasciata americana a Roma, arbitrariamente motivata da assenza di sicurezza. * * * Ma forse vale la pena di fare il punto sulle recenti svolte nelle relazioni euro-americane. Nell’arco di dodici mesi l’“Air force One” avrà attraversato tre volte i cieli dell’oceano Atlantico, portando il presidente degli Stati Uniti in quei lidi europei che non sembrano più tanto propensi ad accogliere supinamente il verbo americano, ma che nello stesso tempo non sono in grado di proclamare la loro piena autonomia dal gigante mondiale. La prima volta, nel 2004, George W. Bush è venuto in Europa per celebrare la ricorrenza sessantennale della liberazione di Roma, il 4 giugno, e due giorni dopo, lo sbarco in Normandia. L’atmosfera esaltante di quella memoria copriva ma non abbassava il livello del dissenso franco-tedesco contro l’intervento anglo-americano in Iraq, dissenso sul quale si sarebbe poi allineata la Spagna di Zapatero, mentre Roma marcava con il suo contributo alla pacificazione interna del Paese mediorientale la palese discrasia intraeuropea. Più recentemente, lo scorso mese di febbraio 2005, Bush è tornato con varie carte vincenti in mano: la sua rielezione e una serie di strabilianti esercitazioni elettorali, di buon auspicio per l’affermazione delle rispettive democrazie, in Afghanistan, in Iraq, in Palestina, in Georgia e in Ucraina, tutte aree di grande tensione nelle quali la gente comune ha dimostrato, non senza esporsi a gravi rischi, l’amore per il fatto nuovo di poter esercitare qualche diritto sul proprio destino. Il che sta a significare che il programma inteso ad estendere alle popolazioni oppresse da regimi autoritari e da pigrizie mentali i benefici di un vivere civile senza dittature comincia a portare buoni frutti. Fondamentale appariva il riconoscimento del Presidente degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Europea, fresca del trattato di Costituzione in via di ratifica presso i 25 Stati, come soggetto politico internazionale, riconoscimento affidato alla scelta di Bruxelles come sua prima tappa. I successivi colloqui con Chirac e con Schroeder mostravano un quadro più disteso rispetto a quello determinato dalla originaria bocciatura dell’intervento anglo-americano in Iraq da parte di Francia e Germania. Le guerre non sono mai piacevoli, e forse mai nemmeno giuste, ma il pulpito dal quale veniva la predica era quello che aveva visto le iniziative guerresche napoleoniche di fine ‘700 e di inizio ‘800, e le ulteriori mosse kaiseriane-hitleriane del secolo XX.. Tutto questo va detto non per assolvere il duo Bush-Blair dall’aver giocato sul possibile, ma non provato possesso di armi di sterminio di massa da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, ma per ricordare agli europei che in certe “marachelle” essi sono stati maestri, anche se adesso non lo fanno più. * * * La terza e prossima visita di Bush in Europa avrà luogo l’8 maggio a Mosca, quando le due maggiori potenze vincitrici della seconda guerra mondiale celebreranno il 60° della comune vittoria sul nazismo. Si dirà: acqua passata. Ce ne sono stati di capitoli di storia dopo quell’evento: la guerra fredda, la coesistenza, i colloqui per il disarmo convenzionale e nucleare, la caduta del regime comunista in Europa, il riscatto democratico dei Paesi dell’Est. Alla Russia Bush indica la strada della trasparenza e di un maggior garantismo nell’esercizio delle libertà politiche ed economiche; e lo fa con quell’aria di primo della classe che contraddistingue gli americani quando salgono in cattedra di democrazia. Inoltre chiede a Putin di essergli alleato nel contrastare il possesso di ordigni nucleari da parte di Stati “inquietanti” (non ci piace il termine “canaglia”), soprattutto Iran e Corea del Nord, oltre che di vigilare affinché non escano dal territorio russo pezzi di meccanismi nucleari o di armi sofisticate come avviene per i Kalascnikov che, quasi quasi, li trovi ormai ai supermercati. A tutti, infine, all’Est e all’Ovest, domanda di partecipare a un programma per sconfiggere, o almeno combattere, il terrorismo internazionale, e qui sembra che qualche passo in avanti si sia fatto. Ma che fatica convincere gli europei che i terroristi non ci si debba limitare a rabbuffarli o soltanto a rabbonirli. * * * Sbaglia dunque l’ex-cancelliere Helmut Schmidt nel rimproverare alla Nato la ricerca di un nemico ad ogni costo, quando il nemico, e quale nemico!, il terrorismo internazionale, è sulla scena da decenni, seminando stragi in ogni parte del pianeta. Come si fa a scrivere che “dopo la dissoluzione dell’URSS non sono emersi altri nemici sul piano militare. E da allora …senza voler esser cinici, si può dire che i responsabili di quest’Alleanza di difesa militare hanno bisogno di un nuovo nemico” ? E a prevedere che “anche in futuro Washington avrà la tendenza ad agire spesso in maniera unilaterale, senza riguardi né per i Trattati e le Istituzioni internazionali, né per gli alleati, e men che meno per l’Unione europea”? Ma proprio con la recente missione in Europa Bush ha mostrato di tenere nella massima considerazione sia gli orientamenti dell’Unione che quelli dei singoli Paesi. Suonano molto più avveduti gli avvertimenti di Giuliano Amato, il quale invita a cogliere l’occasione per darsi “davvero una politica estera europea e quindi parlare agli Stati Uniti e al mondo come interlocutori che ne siano una riconosciuta espressione”. E spende una parola per fare coincidere gli obiettivi visto che coincidono gli interessi: “serve agli americani la nostra prudenza, e serve a noi europei di farci contagiare dall’utopia wilsoniana e quindi dall’irrequietezza americana davanti ai regimi non democratici… per gettare il nostro peso e la nostra cultura….nella promozione di quella democrazia più diffusa di cui il mondo ha innegabilmente bisogno”. Lo stesso Bush, prima di partire, aveva rassicurato i suoi connazionali, soprattutto i neo conservatori, dicendogli: “vedrete che non è necessariamente vero che si trovino di fronte un’America ricca di ideali e un’Europa chiusa nel cinismo”. Parole più che trasparenti per rintracciare quei filoni di diffidenza verso gli europei fortemente presenti nell’opinione pubblica americana odierna. Filoni riconoscibili, se ce ne fosse bisogno, nella strigliata senza peli sulla lingua che ci muove l’ex speaker della Camera dei Rappresentanti americana, Newt Gingrich, nel suo ultimo saggio. “Winning the Future” dove pone al secondo posto delle cinque minacce che assediano l’America, subito dopo l’ipotesi che i terroristi possano entrare in possesso di armi nucleari e biologiche, e impiegarle, questa triste prospettiva: “che Dio venga allontanato dalla vita pubblica americana e ci riduca alla civiltà della noia che adesso caratterizza un’Europa in declino”. * * * Concludiamo: la storia dei rapporti euro-americani non è poi tanto lunga, essendo gli Stati Uniti venuti alla luce alla fine del 700, da non mandarne a mente le fasi salienti: storia di guerre di indipendenza e di emancipazione, ora dagli inglesi con l’aiuto dei francesi, ora dagli spagnoli con l’aiuto degli inglesi e via di questo passo, fino alla doppia liberazione del Vecchio Continente ad opera degli americani nella prima metà del XX secolo. Ma gli Stati Uniti, pur avendo concluso buoni affari con gli europei, acquistando, per esempio, la Luisiana dalla Francia per 80 milioni di franchi nel 1803 e la Florida dalla Spagna col trattato di Washington del 1819, non hanno mai dimenticato il testamento di George Washington il quale ammoniva i suoi concittadini a non rimescolarsi troppo con gli europei poiché “con l’intrecciare il destino americano con quello europeo si facevano dipendere la pace e la prosperità americane dalle ambizioni, dalle rivalità, dagl’interessi, dagli umori e dai capricci dell’Europa”. * * * Dunque collaborazione e schermaglie non sono mancate, nè mancheranno in futuro oltre quelle che sono sul tappeto al presente, ivi compresa la controversia circa lo sblocco dell’embargo sulle forniture militari alla Cina. Per quanto riguarda l’Italia, pur non avendo condiviso l’iniziale decisione di fare la guerra all’Iraq di Saddam (e ha fatto bene), non ha abbandonato l’alleato (e ha fatto altrettanto bene) aiutandolo in quella che si è rivelata la parte più spinosa dell’impresa. E non si comprende pertanto come lo stesso Giuliano Amato possa affermare che “proprio il governo italiano, che ha puntato sinora più sul rapporto con Washington che sul contesto europeo, rischi di trovarsi pretermesso dalla possibile ripresa di un lavoro comune fra la stessa Washington e Londra, Parigi e Berlino”. Sarebbe un paradosso insostenibile punire l’Italia per la sua coerenza atlantica. Siamo d’accordo sul fatto che ci voglia più Europa, non che ci voglia meno America, almeno fin quando l’Unione E uropea, oggi militarmente assente come insieme, e debole nelle sue componenti nazionali, non sarà in grado di esercitare un ruolo paragonabile a quello della potenza transatlantica. Un giorno di tanti anni fa, ho personalmente ascoltato un alto pensiero di De Gasperi consegnato a un piccolissimo gruppo di giornalisti italiani, quasi nucleo profetico dell’Associazione dei Giornalisti Europei: “scrivete – ci disse lo statista - che per l’Italia è finita l’epoca dei giri di valzer”.
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