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Elezioni europee, la lezione dei popoli

di Marcello Palumbo

Dovremo trarre dai risultati delle elezioni europee del 10-13 giugno, e soprattutto dalla scarsa affluenza alle urne motivo di angustia? Ripiegarci su noi stessi e chiuderci in un avvilente silenzio? Oppure leggere in quei dati la severa lezione che ne discende per tutti: politici e comunicatori? Così poco è durata la luna di miele dei 10 Paesi che hanno varcato la soglia dell’Unione il 1° maggio scorso, e che avevano espresso nei rispettivi referendum un consenso superiore all’80% dei votanti? Se si confrontano le percentuali degli stessi referendum svoltisi tra il marzo e il settembre 2003 e quelle delle ultime elezioni non si può nascondere la sorpresa per il sostanziale calo delle affluenze. La Slovacchia che aveva registrato nel referendum del maggio 2003 il 52,15% dei votanti, ha toccato con il 16,66% il punto più basso di tutti i 25 Stati. La Slovenia è passata dal 60,44% di votanti per l’adesione al 28,34% per il P.E., la Polonia dal 58,85 al 20,42, l’Ungheria dal 45,72 al 38,47, la Lettonia dal 63,5 al 48,2, l’Estonia dal 64,02 al 26,89, e similmente tutti gli altri. Queste cifre rivelano un repentino affievolimento dell’euroentusiasmo tra i 73 milioni di abitanti dei 10 Paesi che si uniscono ai 382 milioni degli ormai consolidati 15 Stati “anziani” dell’Unione. Tra i quali si è pure registrato una sintomatica flessione del voto, che per la verità è andato sempre scemando nei successivi quinquenni: dal 63% del 1979 al 61, al 58,5, al 56,8, al 49,8 fino all’attuale 45,5. Ma non tutti i Paesi hanno registrato nella recente tornata elettorale la medesima tendenza, a cominciare dall’Italia che ha incrementato il numero dei votanti passando dal 70,8 del 1999 al 73,1, e che ha per compagne il Lussemburgo, dall’87,3 al 90, l’Olanda dal 30 al 39,1, l’Irlanda dal 50,2 al 59,7 e la stessa Inghilterra dal 24 al 38,9.
Se i nuovi arrivati mostrano segni di stanchezza vuol dire che qualcosa non va. Di solito, infatti, i neofiti non si lasciano sfuggire occasioni per dimostrare il loro zelo, mentre la mancanza di fervore e l’agnosticismo sopravvengono nei momenti successivi, quando si perde il gusto della novità.
Comunque interpretati: snobismo di vecchi democratici incuranti dei possibili cambiamenti nella scena politica, o sintomo di precoce stanchezza o di generale disincanto, i segnali lanciati dai popoli dei 25 Paesi vanno accolti come un severo avvertimento per quanti hanno nelle mani l’impasto dell’Unione Europea, che è ben lungi dall’aver assunto la consistenza di un organismo capace di misurarsi coi maggiori attori della politica internazionale. Diverso è il fenomeno dell’eurofobia, che più che rifugiarsi nell’astensionismo, si è fatta sentire attraverso il voto compatto nelle liste indipendentiste, come la UKIP in Gran Bretagna, l’Junilistan in Svezia, il partito civico democratico nella Repubblica Ceca e così via.
La verità è che, nonostante la sua età matura, che ha superato i 50, l’Europa dell’Unione si attarda ancora in una sorta di dilettantesco infantilismo, a cominciare dai tre Grandi del presuntuoso direttorio Blair-Schirac-Schroeder i quali hanno ricevuto dai rispettivi elettori una meritata bocciatura, per passare ai troppi “mister” che si aggirano tra i meandri della politica continentale e mondiale come pirandelliani personaggi in cerca d’autore. Non si fa la politica estera e della sicurezza con un mister Pesc, né si costruisce la difesa europea con un esercitino “Petersberg” di 50 o 60 mila uomini, né si vince la sfida del rilancio economico con il comitato di Lisbona guidato da Win Kok, né la minaccia del terrorismo con la creazione di un sotto-mister, l’olandese Gijs De Vries, che risponde al superiore mister Solana.
Se non lo hanno fatto per colpevole e imperdonabile distrazione, disertando massicciamente le urne, i popoli europei hanno voluto lanciare un grido d’allarme perché i problemi siano affrontati con la serietà che meritano, a cominciare dall’economia: 0,4% di crescita di fronte al 3,5% degli USA, al 9,7 % della Cina e all’8,4 dell’India, con il 9% disoccupati nei 15 Paesi e il 14% nei 10, con i problemi dell’immigrazione e del controllo delle frontiere, con quello gravissimo dell’invecchiamento della popolazione che sbilancia in maniera drammatica il settore pensionistico, per finire con l’identità europea, pluralista e meticcia fin che si voglia, persino ambigua e indefinibile, ma tuttavia bisognosa di una sua distinta fisionomia, senza della quale non si ha nemmeno il  diritto di stare al mondo.

 

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