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Dovremo trarre dai
risultati delle elezioni europee del 10-13 giugno, e soprattutto
dalla scarsa affluenza alle urne motivo di angustia? Ripiegarci su
noi stessi e chiuderci in un avvilente silenzio? Oppure leggere in
quei dati la severa lezione che ne discende per tutti: politici e
comunicatori? Così poco è durata la luna di miele dei 10 Paesi che
hanno varcato la soglia dell’Unione il 1° maggio scorso, e che
avevano espresso nei rispettivi referendum un consenso superiore
all’80% dei votanti? Se si confrontano le percentuali degli stessi
referendum svoltisi tra il marzo e il settembre 2003 e quelle delle
ultime elezioni non si può nascondere la sorpresa per il
sostanziale calo delle affluenze. La Slovacchia che aveva registrato
nel referendum del maggio 2003 il 52,15% dei votanti, ha toccato con
il 16,66% il punto più basso di tutti i 25 Stati. La Slovenia è
passata dal 60,44% di votanti per l’adesione al 28,34% per il P.E.,
la Polonia dal 58,85 al 20,42, l’Ungheria dal 45,72 al 38,47, la
Lettonia dal 63,5 al 48,2, l’Estonia dal 64,02 al 26,89, e
similmente tutti gli altri. Queste cifre rivelano un repentino
affievolimento dell’euroentusiasmo tra i 73 milioni di abitanti
dei 10 Paesi che si uniscono ai 382 milioni degli ormai consolidati
15 Stati “anziani” dell’Unione. Tra i quali si è pure
registrato una sintomatica flessione del voto, che per la verità è
andato sempre scemando nei successivi quinquenni: dal 63% del 1979
al 61, al 58,5, al 56,8, al 49,8 fino all’attuale 45,5. Ma non
tutti i Paesi hanno registrato nella recente tornata elettorale la
medesima tendenza, a cominciare dall’Italia che ha incrementato il
numero dei votanti passando dal 70,8 del 1999 al 73,1, e che ha per
compagne il Lussemburgo, dall’87,3 al 90, l’Olanda dal 30 al
39,1, l’Irlanda dal 50,2 al 59,7 e la stessa Inghilterra dal 24 al
38,9.
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