di Marcello Palumbo
Si discuteva giorni fa (era il 21 aprile) presso la sede del
Movimento Europeo, non del natale di Roma, sibbene della scarsa
attenzione riservata dalla stampa scritta e audiovisiva alle sorti
dell’Unione europea. Le lamentele al riguardo, che sento risuonare
da tempo immemorabile, e certamente da quando si cominciò a gettare
le basi intellettuali e poi giuridiche dell’impresa che ci tiene
avvinti da oltre mezzo secolo, ebbero per attori, come in un doppio
di tennis, due politici e due giornalisti. I primi: il sen. Valerio
Zanone, presidente del M.E. italiano, e il segretario del Movimento,
la prof. Annita Garibaldi, docente di diritto costituzionale
comparato; i secondi, due giornalisti: Angelo Sferrazza che ha
navigato a lungo nella laguna televisiva come capo servizio di
programmi culturali, e Carmelo Occhino, segretario dell’Associazione
dei giornalisti europei. Quest’ultimo ricordava il dato scandaloso
emerso dal recente convegno dell’AGE sul rapporto tra cittadini e
informazione europea, e cioè che il mezzo di comunicazione
oligopolico, la tv, secondo i monitoraggi del benemerito
Osservatorio di Pavia, dedica all’Europa solo il 2 per cento dello
spazio destinato alle notizie. Sulle prime il coefficiente
statistico fa impressione, ma ad una valutazione più realistica e
lungimirante ci si può consolare al pensiero che anche il Nazareno
assegnava ai suoi discepoli una funzione volumetricamente discreta
come il sale e il lievito, nel mare magnum della società.
Le osservazioni che precedono richiamano un confronto molto più
inquietante. Come mai il Sessantotto, di cui ricorre il
quarantennale, ha ottenuto una ben diversa fortuna, e benché
variamente amato e vituperato, fa ancora tanto scalpore? E’
difficile ed anche rischioso rispondere a un simile quesito,
soprattutto se si fa tesoro della lezione di Chou En-lai che, in
visita a Parigi, richiesto di dare un giudizio sulla Rivoluzione
Francese, rispose: “è troppo presto per pronunciarsi”. Come che sia,
vale la pena di seguire il filo dei ricordi di quattro protagonisti
dell’epoca, che si sono avvicendati nel rievocare fatti e storie da
essi vissute, davanti ad un migliaio di ascoltatori nella sala di
Santa Cecilia all’Auditorium di Roma, la mattina del 20 aprile.
Paul Berman, columnist statunitense, stabilisce un’originale
consecutio temporum tra il 1848 europeo, il 1968 globale e
il 1989 berlinese, trovando una connessione misteriosa fra le tre
date. In America, come si sa, vengono usati stampini politici
diversi da quelli del Vecchio Continente. Così, mentre la vecchia
sinistra, erede del partito socialista fondato nel 1905 da Jack
London, veniva assorbita dall’ establishment democratico
roosveltiano, il movimento studentesco e le frange progressiste
americane rifiutavano la componente socialdemocratica
scandinava-laburista, considerata di marca scadente. Da parte sua il
Sessantotto negli Stati Uniti ebbe il suo da fare coi diritti civili
dei neri e con il Viet Nam. Secondo Barman, in una situazione pur di
grandissima confusione quell’esperienza continua ad ammonire circa i
valori dell’onestà intellettuale, della democrazia su
scala mondiale e del principio di solidarietà universale.
Fernando Savater, filosofo dell’etica, spagnolo, rievoca le
occupazioni di facoltà e la “presa della cattedra” da parte degli
universitari nella fase declinante della dittatura franchista coi
conseguenti arresti e le brutali repressioni. Ma da quel momento,
anche se Franco rimase in vita e al potere per altri sette anni,
qualcosa cambiò nella quotidianità della nazione iberica,
soprattutto nella sfera della libertà di pensiero e nella vita
sessuale.
Adam Michnik direttore dell’importante quotidiano polacco “Gazeta
Wyborcza” precisa il senso della rivolta che divampò in quegli anni
nel suo Paese, una rivolta antisovietica, ma non condotta in nome
del capitalismo e delle libertà borghesi. Piuttosto a favore delle
libertà “vere” nutrite di spirito anticonformista, il tutto ben
rappresentato dallo slogan: “sii realista, chiedi l’impossibile”. La
nostra – dice - fu una rivolta dei fiori contro le proprie radici,
maturata nella convinzione che il comunismo, soprattutto dopo la
repressione della Primavera di Praga nell’agosto del ‘68, non fosse
in alcun modo un soggetto “riformabile”. Non si bramava il potere,
ma la riforma della società, e questo compito tiene ancora occupata
la generazione presente in Polonia.
Daniel Cohn-Bendit ha le idee chiare sul significato di quel che
accadde nel fatidico 1968. Non vi fu il desiderio, comune a tutte le
rivoluzioni, di una presa del potere avvertito come sinonimo di
governo, quanto la voglia di riappropriarsi del potere, sì, ma sulla
propria vita. E, per quanto riguarda il sistema pubblico, si trattò
di sviluppare una cultura democratica capace di fornire alla stessa
democrazia disegni nuovi di libertà individuali non meno che
riscoperte di responsabilità e solidarietà collettive.
Il ’68 ha 40 anni, la costruzione del soggetto Europa dura da quasi
60 anni, la globalizzazione si è resa evidente da una ventina
d’anni, più marcatamente da 10 anni in qua. Che dire? Uno sguardo
dal ponte sulla condizione umana non entusiasma, anzi proprio quella
stampa che parla così poco d’Europa e che si intriga sul ’68 è
costretta a registrare guasti aggiuntivi a quelli di ordinaria
amministrazione nel sistema basilare della convivenza civile e
affievolimenti della coscienza comune, vale a dire il fenomeno della
omologazione scadente. Per fortuna, la storia non è finita e di ogni
impresa che ne segna i passaggi bisogna iscrivere in bilancio i
profitti e le perdite.
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