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Il Mediterraneo grande miscelatore
di culture e di correnti migratorie

di Marcello Palumbo

Il 21 giugno si è svolto nell’isola di Leros un seminario di studi sui problemi dell’immigrazione nel Mediterraneo, promosso dalla sezione greca dell’Aje, e al quale Marcello Palumbo, decano della Sezione italiana, ha contribuito con una relazione che pubblichiamo integralmente:

           Carta del Mediterraneo (Portolano del 1550)

Più che “mare nostrum” – come lo definì Giulio Cesare nel quinto libro del “De bello gallico” quando, nel 54 a.C. si apprestava a compiere la seconda spedizione in Bretannia - il Mediterraneo si dovrebbe fregiare del titolo di più grande “Mare della storia”. Anche se il suo ruolo dal punto di vista geopolitico ha ceduto, nel corso degli ultimi secoli, il primato all’Oceano Atlantico, e di qui al Pacifico, secondo le linee di un processo ancora in corso di sviluppo, è difficile contendere al Mediterraneo la sua caratteristica di grande contenitore di civiltà. Ma né Giulio Cesare col “mare nostrum”, né i greci (Strabone prima e poi Polibio) con l’espressione “he hemetera thalassa” o con l’altra “he kath’ hemas thalassa”, vollero attribuire un significato di dominio all’aggettivo “nostro”, bensì un senso di “dalle nostre parti”, dalle parti, cioè, in cui i popoli si scambiano le reciproche esperienze e culture.

Questo processo avvenne nei tempi antichi mediante le tre forme classiche: delle scoperte geografiche e degli insediamenti, della guerra e delle conquiste, della pace e della collaborazione attraverso i rapporti commerciali e culturali. A questi tre fattori si aggiunge oggi il turismo, l’ambiguo mostro che può assumere l’aspetto negativo dello sciame di bibliche cavallette o quello positivo dell’intreccio delle culture e degli stili di vita.

Lo scienziato russo Grigori Pomeranz indica nel contesto culturale mediterraneo antico il luogo nel quale per la prima volta si sono realizzate le condizioni del passaggio al dialogo esterno, al confronto reciproco delle civiltà. Nulla di simile si è verificato invece presso le altre due sub-ecumene: quella indiana e quella cinese. Sullo stesso “modello di civiltà aperta” si sofferma un altro eminente studioso, il paleontologo australiano Gordon Childe, il quale attribuisce all’Europa il primato dell’interscambio culturale, quale erede delle civiltà dei Fenici, Sumeri, Egiziani, Assiri, Babilonesi, Greci, Etruschi ecc., e insieme quale bacino di raccolta e di ridistribuzione degli influssi provenienti da ogni parte del mondo nelle età successive: dai Celti, ai Teutoni, Slavi, Arabi, Cinesi, Maya e altri popoli.

L’esperienza italiana

La visita a Roma del leader Muammar Gheddafi, punteggiata da episodi vivaci, suggella l’applicazione di un metodo consistente nella disciplina dei movimenti migratori dai porti d’imbarco. Si tratta appunto dell’esecuzione di uno dei punti del Trattato italo-libico di amicizia, partenariato e cooperazione, siglato a Bengasi il 30 agosto 2008, che sancisce la collaborazione nella lotta all’immigrazione clandestina. Questo fenomeno aveva causato negli anni recenti, con un’intensificazione esponenziale nei primi mesi dell’anno in corso, numerosi incidenti, drammi, naufragi, e infine il respingimento deciso dal governo italiano di un certo numero di disperati imbarcati sulle “carrette del mare”. Un gesto che ha provocato una nota di disapprovazione da parte delle autorità dell’ONU addette ai rifugiati.

Ma il problema della difficile ospitalità e del sovraffollamento dei punti di raduno si spostava dall’isola di Lampedusa ai porti e al retroterra libici. In proposito il presidente della Camera dei deputati italiana, Gianfranco Fini, ha indirizzato al suo omologo libico, segretario generale del Congresso del Popolo, Embarak El Shamack, una richiesta affinché una delegazione italiana possa recarsi nei campi libici di raccolta degli immigrati per verificare il rispetto dei diritti dell’uomo sanciti dall’Onu e dal Trattato di Bengasi.

E’ interessante notare che gli approdi sulle coste italiane contribuiscono solo per il 13% alla immigrazione irregolare, mentre il 64% dei senza permesso è composta dagli overstayers che entrano con visti regolari e rimangono nel territorio italiano oltre la scadenza dei permessi, mentre il 23% attraversa la frontiera con mezzi fraudolenti.

Nel decennio 1999-2008 i migranti fermati alle frontiere marittime italiane sono scesi da 49.999 a 36.951. La punta massima di circa 50 mila del ’99 era formata da profughi della guerra del Kosovo sbarcati quasi tutti nella regione della Puglia. Gli accordi di riammissione iniziati nel 1998 con Albania, Tunisia, Egitto, Turchia e infine il Trattato di Bengasi del 2008 con la Libia hanno avuto l’effetto di ridimensionare gli sbarchi clandestini sulle coste della Puglia, della Calabria e della Sicilia.

Il capitolo Italia del grande libro della migrazione è descritto ampiamente nel dossier della Caritas, che nell’ultima sua edizione registra 4 milioni di presenze straniere (il 6,7% della popolazione), un milione e mezzo di lavoratori, tra cui 800 mila iscritti ai sindacati e 500 mila in nero. Tutti insieme contribuiscono al PIL nazionale per il 9% mentre i figli di immigrati nelle scuole italiane sfiorano la cifra di 600 mila. L’acquisizione della cittadinanza italiana è molto bassa: 38.466 stranieri nel 2007, anno in cui in tutta Europa sono stati concessi 700 mila titoli analoghi. La criminalità straniera è stimata dalla Caritas allo stesso tasso di quella italiana. Nell’anno 2005 sono stati operati in Italia 23.878 respingimenti alla frontiera, 26.985 rimpatri e 65.617 provvedimenti di espulsione non ottemperati.

E’ da notare che l’Italia, ma con essa molti altri Paesi europei, è stata in passato essa stessa soggetto di emigrazione dei suoi cittadini. Attualmente 3 milioni di italiani e 60 milioni di oriundi (un numero pari ai residenti nella Penisola) vivono all’estero. Un aspetto particolarmente positivo, registrato dalla fondazione Ethnoland, riguarda la vocazione all’imprenditoria degli immigrati in Italia, il Paese delle piccole imprese. Nel giugno 2008 si contavano 165.114 immigrati titolari di imprese, il 3,3% dei 5 milioni e passa di aziende censite in Italia.

Uno dei pilastri della politica marittima del Mediterraneo è la “Commissione Inter-Mediterranea (Cim)” creata in Andalusia nel 1990, con il fine di rappresentare gli interessi delle regioni mediterranee all’interno della “Conferenza delle Regioni periferiche marittime d’Europa”, la quale raggruppa 156 regioni europee appartenenti a 28 Stati, membri e non dell’Unione Europea, in rappresentanza di circa 200 milioni di abitanti. I problemi della migrazione sono all’ordine del giorno della Cim insieme con quelli dell’agricoltura, del turismo, dei trasporti, del dialogo interculturale ed altri. Il dramma dei clandestini, sans papier, sin papelos, temporeros, peontier, ecc. coinvolge un gran numero di Paesi di provenienza e di approdo.

L’esperienza spagnola

I viaggi verso i territori della Spagna con le pateras dei pescatori attraverso lo Stretto di Gibilterra sono iniziati nel 1999 con 3.569 arrivi, cresciuti fino a 19.176 nel 2003, per calare a 13.400 nel 2008. Gli arrivi nelle Canarie dal Senegal e dai Paesi dell’Africa Subsahariana hanno toccato la punta massima nel 2006 con 31.678 migranti clandestini.

L’esperienza greca

Nel territorio della Grecia, secondo calcoli attendibili, gli sbarchi sono fortemente aumentati negli ultimi anni, passando da 9.050 nel 2006 a 20.000 nel 2008. Molti provengono dalla Turchia e sono diretti alle Isole di Samo, Chio e Lesbo. I flussi più significativi di richiedenti l’asilo provengono dall’Afghanistan, dall’Iran e dai Paesi del Corno d’Africa. Secondo recenti statistiche i 600 mila albanesi residenti nel territorio ellenico rappresentano i due terzi del totale degli immigrati in Grecia.

L’agenzia Frontex

L’agenzia Frontex, incaricata del controllo delle frontiere esterne dell’Unione Europea, viene citata da studi scientifici sulla materia per una sua efficace opera di intercettazione sulle rotte marittime, ma di questa azione poco si conosce attraverso i media.

14.661 vittime in 20 anni

Purtroppo si devono contare a migliaia le vittime delle migrazioni clandestine. L’agenzia Fortresse Europe registra negli ultimi 20 anni l’alta cifra di 14.661 morti, di cui 6.327 dispersi. La maggior parte di questi sono naufraghi, ma non mancano i caduti della disperata fuga sui camion che battono le piste desertiche del Sudan, Chad, Niger, Mali, Libia, Algeria.

“Viaggiando nascosti nei tir – riporta testualmente la medesima agenzia – hanno perso la vita in seguito ad incidenti stradali, per soffocamento o schiacciati dal peso delle merci 352 persone. E almeno 208 migranti sono annegati attraversando i fiumi frontalieri: la maggior parte nell’Oder-Neisse tra Polonia e Germania, nell’Evros tra Turchia e Grecia, nel Sava tra Bosnia e Croazia e nel Morava tra Slovacchia e Repubblica Ceka. Altre 112 persone sono invece morte di freddo percorrendo a piedi i valichi della frontiera, soprattutto in Turchia e Grecia. Sotto gli spari della polizia di frontiera sono morti 209 migranti tra cui 37 a Ceuta”.

70 milioni di immigrati nell’Unione Europea

Un fenomeno così vasto come l’immigrazione non poteva sfuggire alle maglie dell’Unione Europea. Se ne occupano infatti tutti i Trattati da quello di Maastricht in poi: di Amsterdam, Nizza, Roma e infine Lisbona. Gli europei hanno nel loro bagaglio una conoscenza del fenomeno inverso a quello della immigrazione, e cioè della emigrazione, che ha interessato nei secoli XIX e XX oltre 40 milioni di persone espatriate soltanto negli Stati Uniti, senza contare l’Australia e gli altri continenti.

Le statistiche più aggiornate parlano di 70 milioni e 600 mila presenze di stranieri nei Paesi dell’Unione Europea: una popolazione inferiore solo a quella della Germania. Dunque, l’esperienza non manca, ma anche la consapevolezza dei rispettivi problemi, della obiettiva difficoltà a risolverli e del carico di sofferenze umane che essi comportano.

La collaborazione multietnica

La speranza è che un grande miscelatore di tradizioni e di culture come l’Unione, che affronta già di per sé il problema della propria integrazione all’interno dei 27 Paesi, sappia governare al meglio il fenomeno regolandolo attraverso il rispetto delle persone e soprattutto la collaborazione multietnica e multiculturale.  

                                                                              Marcello Palumbo

 

 

 

 

 

 

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