Dopo il NO al Trattato di Lisbona |
I “mea culpa” non solo irlandesi |
di Marcello Palumbo La parola panico non basta a descrivere lo stato d’animo di coloro che si illudevano che la maggioranza del popolo irlandese non avrebbe imitato i francesi e gli olandesi nel dire “no” al secondo Trattato costituzionale. Lo ha pronunciato il 53,4 per cento dei partecipanti al referendum indetto da Dublino. A nulla è servito annacquare e sbattezzare il Trattato di Roma con le più blande clausole di Lisbona. A nulla è valso il senso di responsabilità richiesto a un popolo di 4 milioni di abitanti che ha conquistato attraverso l’Europa un benessere mai prima conosciuto, quantificato in 55 miliardi di Euro, e dalle mani del quale veniva gettato il dado sul destino geopolitico di circa mezzo miliardo di persone. Anche se, Napolitano in testa, si sta cercando affannosamente la strada o, se si vuole, il vicoletto idoneo per ovviare al danno giuridicamente “irreparabile” inflitto allo sviluppo fisiologico dell’Unione Europea, non possiamo, come comunicatori addetti al sostegno di questa storia ormai semisecolare, non accusare il colpo. Siamo chiamati a considerare come una nostra sconfitta diretta la data del 12 giugno 2008. Certo, il risultato negativo di Dublino non è tutto da attribuire a un deficit informativo o, peggio, a una sistematica disinformazione, anche se autorevoli nostri colleghi mettono sotto accusa l’ ”eurocratese” dei margravi di Bruxelles. Il “mea culpa” è d’obbligo da parte di tutti coloro che si dedicano alla partecipazione al vasto pelago della pubblica opinione degli atti significativi del processo al quale sono impegnati 27 Paesi sui 34 del Vecchio Continente. Un “mea culpa” che riguarda sia le fonti originarie della comunicazione, sia i diffusori e gli elaboratori del fiume di notizie, di glosse, di osservazioni, di interpretazioni e di critiche, mai ripetitori passivi, mai embedded. Il fatto che il cantiere Europa non sia sempre simile, ora più che mai, a un Paese di Bengodi, e che il percorso costruttivo abbia dovuto più volte confrontarsi con ostacoli che sembravano travolgerne l’obiettivo, non ci allontana dall’impresa alla quale siamo rimasti fedeli sin dall’inizio, e per qualcuno di noi sin da quel congresso dell’Aja che si celebrò sessant’anni or sono, nel maggio del 1948, ma forse ancor prima, dagli anni dei lager nazisti che, ad onta dei carcerieri, divennero il crogiuolo d’Europa, una quasi succursale di Ventotene. Accanto alle nostre colpe va anche annoverata una sorta di rassegnato consenso della maggioranza silenziosa a una arrogante minoranza che tenta, e purtroppo ci sta riuscendo, di sradicare tradizioni e stili di vita che costituiscono il patrimonio dell’ ésprit del continente europeo. A codesta nefasta azione sembra rispondere un impercettibile raffreddamento delle forze cattoliche, respinte ai margini di un processo che le aveva viste in prima fila coi tre grandi Schuman, De Gasperi, Adenauer, in perfetta sintonia coi rappresentanti delle componenti liberali e socialiste, Luigi Einaudi, Altiero Spinelli, Jean Monnet, Paul Spaak e molti altri del variegato caleidoscopico democratico. Ma chi poteva mai credere che un’idea così paradossalmente “nuova” come quella che prometteva pace e concordia sopra un terreno che era stato per secoli un costante campo di battaglia potesse incarnarsi in una realtà giuridico-politico-economica senza incontrare ostacoli e difficoltà di sorta? Non dissimilmente l’esempio americano ci istruisce sulle controversie che ebbero tra loro i 13 stati prima di arrivare a una costituzione: l’esercito comandato da George Washington fu tutt’altro che un corpo unito e amalgamato, per di più dipendente dagli alleati francese e spagnolo, e la Convenzione di Filadelfia del 1787 fu ben lungi dal registrare la partecipazione compatta di tutti i suoi membri di diritto, mentre l’approvazione del testo della Costituzione (8.000 parole, un preambolo e 7 articoli) avvenne disordinatamente a scaglioni tra il dicembre del 1787 e il novembre del 1788, ma il Rhode Island diede la sua adesione soltanto nel 1790. Né vanno sottovalutati da una parte il processo costituzionale mai definitivamente chiuso, che produrrà 26 emendamenti al testo originario, e dall’altra l’ingresso di 37 ulteriori States in aggiunta ai 13 iniziali, gli ultimi dei quali, l’Alaska e le Hawai, sono entrati nella Federazione soltanto nel 1950, 163 anni dopo la sua fondazione. Luigi Einaudi in un articolo datato 5 gennaio 1918, che fa bella mostra, tra gli altri cimeli, in questi giorni al Quirinale, ricorda una frase attribuita a George Washington: “se gli Stati respingeranno questa eccellente costituzione, mai più un’altra potrà essere formata in pace”. La sfida fu raccolta dai tre “propagandisti”: Alexander Hamilton, John Jay e James Madison che si misero a girare per gli stati incitando le popolazioni con articoli di grande levatura culturale e giuridica, poi raccolti nel “Federalist”, universalmente considerato la bibbia del federalismo. Anche se consapevoli dei nostri limiti, sarebbe il caso nonché l’ora di impegnarci a imitarne l’esempio.
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