di Marcello Palumbo
Dopo le Assemblee del 1977 e del 1988, Dublino accoglie per la terza
volta il Congresso dell’AJE dall’8 all’11 novembre, all’indomani del
vertice di Lisbona del 18 ottobre scorso, che ha chiuso la fase
negoziale del Trattato Internazionale (non più Costituzione), che
disegna il nuovo volto dell’Unione Europea e che sarà firmato
solennemente il 13 dicembre prossimo.
Quale “più anziano del villaggio” interpreto il sentimento generale
dei soci rivolgendo un cordiale grazie alla città Capitale
dell’Irlanda, il Paese definito in un recente studio sul turismo
mondiale il più accogliente nei confronti dei visitatori, e un
particolare tributo di gratitudine ai colleghi della Sezione
irlandese. Il punto di arrivo odierno è il fatto storico di un
insieme di 27 Stati che assume uno status giuridico proprio
nell’arengo delle Nazioni, e che assicura uno speciale rapporto di
integrazione a vari livelli tra i Paesi-membri, ma che rinuncia ai
più stretti legami prospettati nel trattato di Roma del 29 ottobre
2004, rigettato dal responso popolare di due dei contraenti stessi.
Soddisfazione e rammarico
Tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’Unione Europea non
possono esimersi dal constatare con soddisfazione, da una parte il
salvataggio della struttura istituzionale, ma anche, dall’altra, con
rammarico il passo indietro registrato sul precedente percorso e il
drastico taglio operato sulle ancorché timide prospettive di
carattere costituzionale, come la soppressione dei simboli (inno e
bandiera), nonché le deroghe nazionali nell’applicazione di parti
del Trattato o di alcuni bizantinismi come il richiamo contestuale,
ma non l’inclusione nel Trattato stesso, dei 54 articoli sui diritti
dei cittadini. Tale è stato il prezzo che si è dovuto pagare alle
esitazioni e alle esigenze, pur legittime, di Paesi di antica e
nuova adesione.
Chi segue da oltre 50 anni i lavori nel Cantiere Europa, e che era
presente in Campidoglio nel 1957 alla firma dei Trattati istitutivi
della Comunità Europea, e altresì presente nel recinto–stampa
annesso alla firma del Trattato del 29 ottobre 2004, può dirsi
certamente gratificato dalla constatazione che lo storico disegno
dell’Europa unita sia andato via via arricchendosi del contributo di
tanti Paesi. Eravamo 6 nel 1957 con un territorio di 1.276.414 Kmq.
e una popolazione di 182.466.000 abitanti, ed ora l’Unione si
estende su 4.278.661 Kmq. con una popolazione di circa 500 milioni
di cittadini.
L’opinione pubblica mostra, tuttavia, segni di prudenza, di
perplessità, e qualche volta addirittura di contrarietà di fronte a
qualsiasi progetto di più stretti vincoli che ovviamente
limiterebbero l’area della sovranità degli Stati e in taluni casi
introdurrebbero elementi di novità tali da sovvertire antiche
tradizioni nazionali. Ma nello stesso tempo nessuno dei 27 Paesi
vuole abbandonare l’impresa comune, pur potendolo fare giacché glie
ne offre facoltà il nuovo Trattato, il quale garantisce, come del
resto già faceva lo schema del precedente, che non vi saranno guerre
di secessione verso gli Stati uscenti.
Come è comprensibile, ciascun Paese cerca di trarre il maggiore
vantaggio dallo stare insieme. Ecco dunque un’ idea che vale la pena
di coltivare: l’Unione come quadro di competizione tra le varie sue
componenti, impegnate tuttavia a non danneggiare la piattaforma
comune e a non porre ostacoli al lavoro collettivo nei confronti
delle cosiddette sfide con cui nessun Paese riuscirebbe ormai a
misurarsi da solo: equilibrio ecologico, terrorismo e guerre
tribali, energia, immigrazione, concorrenza dei nuovi colossi che si
affacciano sulla scena del globo.
Ci mancano paradossalmente Stalin, Catone e Demostene
Negli anni in cui si muovevano i primi passi sulla via
dell’integrazione, uno dei padri fondatori, Paul Henri Spaak, soleva
ammonire i sostenitori dell’idea unitaria europea con questo slogan:
“dovreste erigere un monumento a Joseph Stalin che vi tiene uniti
sotto la sua minaccia”. Nonostante gli attacchi del terrorismo
internazionale sperimentati da non pochi dei nostri Paesi, e
malgrado la evidente incapacità delle singole realtà nazionali a
confrontarsi con le più acute problematiche mondiali, i popoli non
sembrano sufficientemente scossi dall’allarme per i rischi che essi
correrebbero qualora fossero privi dell’Unione Europea.
Tutto sommato, Annibale non è alle porte di Roma né i Macedoni
insidiano Atene. E invece l’uno e gli altri sono in marcia, e noi
non abbiamo né un Catone che ci metta in guardia da Cartagine nè un
Demostene che ci infiammi con le sue Filippiche. Fortunatamente il
dibattito è aperto e vivace. Ad alimentarlo sono soprattutto le
ulteriori richieste di adesioni di Paesi, tra i quali la Turchia
rappresenta il caso più interessante ed anche il più discusso.
Fortunatamente i problemi ci accompagnano quotidianamente, quei
problemi che a detta di un noto filosofo, ci uniscono mentre le
soluzioni ci dividono. E sempre nuovi motivi di unione si aggiungono
alle soluzioni spesso insoddisfacenti.
Lo stesso tema delle ratifiche del nuovo Trattato di Lisbona tiene
desta l’attenzione degli europei, verso i quali noi addetti alla
comunicazione potremmo essere chiamati ad assumere il ruolo che
esercitarono nelle analoghe circostanze, sul finire del Settecento,
i tre grandi americani che si adoperarono per l’entrata in vigore
della loro Costituzione e diedero vita a quel mirabile complesso
editoriale del Federalist. Ma accanto ai quesiti contingenti non
dovremmo trascurare la visione storica che aggancia gli avvenimenti
dei passati decenni al nostro divenire. L’Unione Europea non si è
formata a tavolino come corpo estraneo al contesto mondiale, in una
sorta di splendido isolamento.
Il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma, celebrati lo
scorso mese di marzo, ci ha fornito lo spunto per riflettere sulla
contemporaneità del processo unitario con i sensazionali avvenimenti
quali la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione del colosso
sovietico, la liberazione dei popoli a sovranità limitata, la
riunificazione della Repubblica Federale di Germania, e la
ricongiunzione dei popoli europei dell’Est e dell’Ovest avvenuta col
Trattato di adesione del 1° maggio 2004. A quanti martiri come le
vittime della repressione sovietica della Rivolta Ungherese del 1956
o della Primavera di Praga del 1968, e a quanti audaci leaders e
cittadini dell’ Est europeo dobbiamo il fortunoso svolgersi degli
avvenimenti che hanno consentito agli europei dell’intero continente
di ritrovarsi finalmente in un laboratorio comune!
Autostima e autocritica
Forse le istituzioni possono aspettare ancora un loro
perfezionamento, come prevedeva Robert Schuman, l’ideologo dei
piccoli passi, che ho avuto la ventura di conoscere al seguito di
Alcide De Gasperi al Quai d’Orsay in un giorno di novembre del
lontano1948. Ciò che non può attendere di essere seguito con somma
cura è tutto ciò che riguarda la concezione di vita degli europei
che, salvaguardando il patrimonio storico dello spirito e della
cultura, merita di essere sottoposto al duplice setaccio
dell’autostima e dell’autocritica. Forse ci dovremmo dedicare di più
a questi temi, come si faceva anche ai primordi dell’AJE, e come si
fa in questo congresso di Dublino in cui il tema della libertà di
stampa è palesemente offerto nella sua dimensione non solo
corporativa ma nel contesto indivisibile dalla libertà di
espressione e della dignità della persona. E ognuno sa se abbiamo
bisogno di applicarci alla materia del vivere quotidiano, a cui è
legato lo sviluppo della società civile.
In questo quadro abbiamo utilizzato e continueremo a disporre di
vari richiami, oltre il citato cinquantenario dell’avvento della
Comunità Europea. Il 31 agosto abbiamo ricordato la nascita di
Altiero Spinelli, uno dei massimi profeti e attori dell’unità
europea, mentre l’anno prossimo ricorderemo il Congresso dell’Aja
del Movimento Europeo promosso dal grande statista Winston Churchill
nel 1948, che fornì numerosi suggerimenti ai politici del tempo e da
cui presero forma le prime istituzioni comunitarie. Infine, nel 2009
celebreremo il primo ventennale del fatidico 1989 insieme con le
elezioni del Parlamento Europeo.
La bandiera del federalismo
Da ultimo mi sia consentito di affermare, in armonia con l’esercizio
della libertà di manifestazione garantita dal nostro Statuto,
l’esigenza di non ammainare né il concetto né la bandiera del
federalismo europeo, sia quella ideale, sia quella a dodici stelle
che in alcuni nostri Paesi continua ed essere esposta sugli edifici
pubblici. Continueremo inoltre ad attribuire un significativo valore
alle note dell’Inno alla Gioia con l’emozione di sempre. Si dirà:
sentimentalismo! Forse; ma esso è preferibile all’assenza di ogni
utopia, alla quale Immanuel Kant affidava il compito del vento che
gonfia le vele della ragione. E infine lasciatemi rinnovare
l’auspicio di vedere presto di nuovo riunite tutte le Sezioni dell’Aje
che soffrono una divisione incompatibile col ruolo che la nostra
Associazione si era posta sin dalla sua nascita, oltre 40 anni fa.
|